lunedì 29 ottobre 2007

Blitris, La filosofia del Dr. House




"Vi ho insegnato a mentire,
barare, rubare
e appena volto le spalle vi mettete in fila?!?
"
G. House, II.10




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3 commenti:

Anonimo ha detto...

Sono d'accordo con te, ma ho alcune osservazioni. La tua interpretazione dell'etica di H. è senz'altro più aderente al testo del dr. House di quanto non sia quella di Regazzoni, anche se forse, per questa ragione, è anche meno rivelatrice di un aspetto "etico" del dr. House. Sembra anzi che essa lasci il dr. House nella sua regione di irritante amoralità o immoralità (“relazione autoreferenziale e narcisista”), almeno nella misura in cui l'etica risulta da relazioni intersoggettive e consiste quindi in doveri verso gli altri, e non verso se stessi.

Però anche l'interpretazione di Regazzoni non è del tutto convincente, soprattutto dove fa propria questa etica del dr. House e ne rivendica una positività. Questa etica del prendersi cura dell'Altro, infatti, solleva una domanda: ma l'Altro è sempre un altro singolare? l'altro che, qui e ora, sta accanto a me? A leggere Regazzoni che legge House, sembrerebbe di sì. Non ho qui il libro con me e quindi non vorrei dire sciocchezze: ma mi è rimasta questa impressione. Ma se è così, allora, come si giustifica questo primato dell'altro presente, dell'altro che conta come Altro solo perché è presente, qui e ora, accanto a me? Non ci sono forse anche delle alterità non singolari ma plurali e collettive di cui dobbiamo prenderci cura e di cui dobbiamo rispondere? E non ci sono forse degli altri non presenti ma assenti – ad es. perché fisicamente lontani, o non ancora nati, o morti? Se Regazzoni ha ragione, potrebbe sembrare che in base all'etica del dr. House dovremmo riconoscere il primato morale di chi mi sta accanto fisicamente presente – una sorta di ripiegamento particolarista proto-leghista –, dovremmo negare ogni rilevanza morale alle generazioni future – un vecchio topos illuministico, ma insomma… – e devastare quindi l'ambiente, per che tanto chissene frega, e non dovremmo nemmeno interessarci alla "liberazione in nome di generazioni di vinti", che stava a cuore a Benjamin.

A me sembra invece che la ragione del fascino morale – e non solo immorale, e certamente non amorale – del dr. House sia un'altra. E cioè che il dr. House viola sempre una regola, spesso una regola giusta, e al tempo stesso fa sempre, o quasi sempre, la cosa giusta. Ma se la regola è giusta, come può essere giusta anche la sua violazione? Ecco, il dr. House è moralmente interessante perché esibisce in continuazione questo paradosso etico della giusta violazione di una regola giusta.

Naturalmente, è un paradosso che si potrebbe sciogliere in qualche modo. Il più semplice, e forse meno interessante, è immaginare che la violazione sia giusta in virtù di un'altra regola gerarchicamente prioritaria. Questa interpretazione farebbe del dr. House una sorta di genio morale, che conosce e applica le regole "più giuste" che solo lui domina e da cui potremmo quindi apprendere a comportarci in modo migliore. Non è molto fedele al testo.

L'altra soluzione, secondo me più fedele, consiste invece nel dire che l'eccezione è interna alla regola giusta, perché ogni regola giusta, per essere tale, deve conoscere giuste eccezioni. Lo zelo non è una categoria morale, ma amministrativa, e una regola che non conosce eccezioni è necessariamente ingiusta. Lo spazio della decisione autenticamente etica non è quello di chi dà sempre applicazione alla giusta regola, ma è al contrario quello di chi si assume la responsabilità di disapplicare una regola giusta istituendo un'eccezione assolutamente singolare – ma singolare qui è l'eccezione, non l'Altro che ne beneficia. Chi applica una regola giusta agisce, se vogliamo, in modo morale: nella gran parte dei casi, va bene così, non dobbiamo fare altro. Ma il momento della decisione etica è quando ci assumiamo la responsabilità inaudita di derogare a una regola che avremmo molte buone ragioni per ritenere giusta, inscrivendo nella regola un'eccezione che non ha alcun fondamento, nel senso che non ha alcuna altra giusta regola che la giustifichi.

Anche Ragazzoni, che è davvero molto bravo, dice se non sbaglio qualcosa di simile – ma ripeto, ora non ho il libro sotto mano e non posso controllare. Insomma, il punto che vorrei fare è che secondo me nel dr. House c’è il pathos dell’eccezione e dell’emergenza – emergenza morale ed emergenza sanitaria; c’è il pathos di una decisione assolutamente singolare che viola una regola giusta a cui non possiamo adempiere, e della correlativa responsabilità (e solitudine e infelicità e miseria personale) che questa situazione comporta. Forse è la solitudine del sovrano, che si sottrae a tutte le buone regole e a tutti i poteri mondani e divini, ma in questo caso – nota bene – è un sovrano che non legifera (non ci dà nessun’altra buona regola ). Non c’è invece il pathos della presenza dell’Altro – oppure a volte c’è anche, non lo nego, ma non c’è necessariamente. Spesso anzi i pazienti di House sono piuttosto antipatici (non sempre, è vero: c’è anche un’intonazione di pietà personale, non lo si può negare) e comunque ad House di loro, in linea di massima, non importa assolutamente niente – hai ragione tu a dire che per House i pazienti sono, per lo più, solo “problemi” (problemi teorici, quiz, indovinelli da risolvere; e problemi perché fastidiosi e irritanti per la sua misoginia).

Anonimo ha detto...

Mi permetto di intervenire in questa discussione aperta da Francesca in qualità di discusso, avendo io scritto il pezzo sull'iper-etica. L'intepretazione secondo cui House si occupa esclusivamente delle malattia, che tutto il suo interesse risiede nello scioglimento dell'enigma non mi sembra totalmente convincente nella misura in cui per essere vera deve non tenere conto di un fatto: House non si arresta alla diagnosi ma si interessa alla cura perché vuole salvare il paziente, a tutti i costi. L'idea di salvare la vita al paziente emerge in troppe puntate per poter essere derubricata, credo io, come un semplice accidente. Anzi direi che questi due momenti dell'agire di House sono essenziali alla caratterizzazione del personaggio la cui specificità si articola nello spazio che separa la sua dichiarazione di non occuparsi che della malattia e non del paziente e la sua prassi in cui l'occuparsi della malattia diventa la forma per occuparsi veramente del paziente.

Ed è qui, di fronte alla singolarità che per lui prende la forma della o del paziente che si pone la qeustione dell'eccezione nel campo dell'etica. Sono d'accordo con quanto Giulio scrive a proposito dell'eccezione, ma per me - nella lettura che dò di House e che delinea un modello etico che sottoscrivo - è la singolarità dell'altro a innescare l'eccezione. Il problema di dover trasgredire una giusta legge si pone nella misura in cui si pone, per me, l'esigenza di rispondere nel modo giusto all'altro. In altri termini: non si può essere giusti con l'altro, comportarsi in modo etico nei confronti di altri, nella sua singolarità, senza eccedere le regole. Per la situazione House, la situazione clinica, l'altro è l'altro presente che si presenta sotto forma di enigma clinico da risolvere ma che non si riduce, credo, a questo: cioè a un caso di una qualche malattia. E tutti gli altri? Credo che in generale, in qualche modo, un certo sacrificio (passatemi la parola) sia strutturale a ogni decisione etica: l'altro può essere l'altro presente, come nella situazione clinica; l'altro assente o a-venire o l'altro che viene dal passato; l'altro può essere anche un altro collettivo come singolarità che non fanno Uno ma che considero dal punto di vista collettivo (tralascio tutta una serie di problemi che questa distinzione pone). Ma in ogni caso non si può mai, credo, rispondere a tutti gli altri allo stesso modo e nello tesso tempo. In una forma certo iperbolica House mi sembra ponga questta questione, forse.

zack ha detto...

Io credo che in House ci sia ben poco di etico. House è l'uomo nuovo, il supereroe che si eleva al di sopra di tutto e di tutti. E vince.

Non agisce per il bene e neppure per il male. Le categorie del giusto e dell'ingiusto non gli appartengono. Il sentimento di simpatia per i suoi simili lo sfiora appena, e comunque cerca in tutti i modi di non farsene condizionare.

House è uno a cui non piace perdere, come quei bambini viziati che deve vincere sempre, anzi stravincere. Vincere alla House. Senza compromessi e in maniera creativa. Con una rovesciata al 90° che va a insaccarsi all'incrocio dei pali, col pubblico che appluade e gli avversari attoniti.

Si può trattare di salvare un paziente, trovare una cura, ottenere il suo vicodin quotidiano o riavere il suo parcheggio disabile assegnato dalla Cuddy a un medico in carrozzella (serie 3, puntata 15). House non può e non sa perdere. Non si arrende finché l'avversario di turno (che di solito ma non necessariamente è una misteriosa malattia) non è annicchilito.

Vale tutto, anche imbrogliare, anche mentire, anche prendere dei rischi sulla pelle del paziente e a sua insaputa.

Prende tutto tremendamente sul serio e dietro l'ironia di facciata si cela un imperativo molto personale che gli ordina di vincere qualsiasi partita. E la fortuna, come accede agli eroi ma non agli umani, è sempre dalla sua parte.

(Uno cosi è sicuramente meglio che faccia il medico piuttosto che il militare)

House trionfa dove tutti noi cadiamo. Trionfa accettando e esaltando il valore supremo su cui è fondata la nostra società contemporanea: la competizione. Un valore che tende sempre più a sconfinare dal campo dell'etica a quello dell'estetica.

Il personaggio House sembra molto razionale ma contiene dentro di se una deriva anti-razionalista: il trionfo della morale per cui "ha ragione chi vince".

House, insomma è l'eroe dei nostri tempi, quello che tutti vorremmo essere. Nelle nostre piccole o grandi, importanti o meschine occupazioni quotidiane vorremmo essere come House. Creativi, geniali, liberi e sempre vincitori.

Ma ho il sospetto che, come medico curante, sceglieremmo il meno geniale ma più umano Wilson.